~ Sùryn ~

L’Erede della Piana dormiva nel suo letto. Era stata una giornata splendida, tutto sommato: aveva festeggiato con sua madre e il Maestro i suoi sei anni, c’era stata persino una torta di ottimo marzapane e frutta fresca.

La servitù gli aveva fatto gli auguri, con quegli sguardi strani che non aveva ancora capito come decifrare. Forse avevano paura di lui? Del resto, era il figlio del Protettore della Piana.

D’un tratto, un rumore lo svegliò. Sentì la guardia fuori dalla sua stanza borbottare e riconobbe la voce del Maestro, quindi si rilassò e si mise seduto.
Il Maestro veniva spesso a svegliarlo per raccontargli storie, e a Thakart piaceva. Avevano un patto, e cioè che lui non avrebbe mai dovuto dirlo a suo padre. Al Protettore della Piana non piacevano quel genere di cose, non per suo figlio.

Allungò il braccio per afferrare la tunica del giorno prima e mettersela addosso; nonostante fosse quasi estate, le notti erano ancora fredde. La sua stanza era parca di ornamenti, come tutta Arthall: suo padre non credeva nello sfarzo tipico della capitale Ethuil, e sua madre aveva “gusti decisamente sobri”, così sosteneva la sua vecchia balia. Le pareti erano bianche, ornate solo da qualche piccolo arazzo che rappresentava scene di campagna, scorci della Piana e delle sue terre.

La parte che Thakart preferiva, però, era il balconcino in marmo: da lì si arrampicava per fare il giro del palazzo, e dall’interno che dava sul giardino di Arthall passava alla facciata, che dominava la piazza di Maccah, la sua città. Ormai aveva perso il conto delle volte in cui l’avevano beccato a sgattaiolare fuori dalla finestra e arrampicarsi; ora non poteva nemmeno uscire sul balcone. Suo padre aveva fatto mettere delle sbarre alle finestre; ma a lui non importava, perché conosceva i muri di ogni singola finestra del palazzo. Non lo avrebbero tenuto lì dentro per sempre.

Sùryn?”
Il Maestro lo chiamava sempre così. Significava “figlio del Sole” in elfico, o qualcosa del genere. Il bambino saltò sul letto e sorrise.
“Sono pronto, sono pronto!”
L’uomo si avvicinò e lo sollevò di peso dal letto, mentre lui saltava sul materasso come un cavallo imbizzarrito.
“Shhh, Sùryn, fai piano”, gli sussurrò, adagiandolo sul pavimento coperto da tappeti.
Thakart mosse le dita nude sulla stoffa, quindi corse ad infilarsi gli stivali.
“Prendi una coperta, fa freddo.”

Seguì il Maestro attraverso i corridoi, sorvegliati dalle solite guardie.
“Non avete paura che uno di loro faccia rapporto a mio padre?”, bisbigliò avvicinandosi all’uomo.
“Sono fedeli a tua madre. Non preoccuparti.”
Il Maestro aveva almeno sessant’anni, pensò Thakart; aveva una corta barba grigia e capelli incolti dello stesso colore. Non sembrava badare troppo alle apparenze. Indossava sempre la stessa tunica marrone, sia in estate che in inverno. L’unica volta che lo aveva visto con indosso una pelliccia era stato qualche anno prima, quando una gelata aveva colpito tutta la Piana. Non era come gli altri saggi di Istir.

Giunsero presto nel giardino interno, un quadrato di erba, alberi e fiori che sua madre amava curare. Quella notte, lei non era lì: Thakart pensò che fosse stanca dall’incredibile festa che gli avevano organizzato. Il Maestro lo fece sedere sul muretto basso che delimitava uno dei salici del giardino. Le foglie fredde gli pizzicavano il collo, ma Thakart resistette all’impulso di giocarci. Il Maestro lo avrebbe sgridato, perché ogni forma di vita va rispettata, persino quei malinconici salici piangenti.

“Thakart, sai cosa erediterai un giorno?”, mormorò il vecchio.
“Io sarò il Protettore della Piana”, rispose pronto il bambino, “sarò il capo di Maccah, di tutti i territori e anche dell’Esercito del Sole!”.
Il Maestro si sedette accanto a lui con un gemito di fatica. Allungò una gamba e posò l’avambraccio sull’altra, osservandolo di sbieco.
“Lo sai, una volta gli Arthall non erano solo Protettori.”
Thakart lo guardò con tanto d’occhi: quella era una storia che decisamente suo padre non avrebbe voluto che lui sentisse. Ne aveva già parlato insieme al Maestro, ma finse di non ricordarsene. Gli piaceva ascoltarlo.
“E cosa eravamo?”
Il Maestro osservò il salice e fece un mezzo sorriso allo spicchio di luna che si rifletteva sulle foglie argentee.
“Eravate re”, rispose, “il nonno di tuo nonno era re, suo figlio lo era, e così via”.
“E poi cos’è successo?”
“L’Imperatrice fece un accordo con Rikhart Arthall, tuo nonno. Lui era molto giovane ed accettò, convinto di fare il meglio per il suo paese.”
“E non fu così?”
Il Maestro sembrò piegarsi sotto ad un grave peso. Si mise a sussurrare, e Thakart dovette avvicinarsi e quasi trattenere il respiro per poterlo ascoltare.
“Rikhart il Costruttore diede a quella che era ancora una Regina il potere dell’Esercito del Sole. Tuo padre fa lo stesso, e ora quella Regina si fa chiamare Imperatrice. Lo sai cos’è un Impero, Sùryn?”
Thakart si morse una guancia.
“Un Impero è come un regno, ma più grande”, rispose deciso.
Il Maestro annuì.
“Ma non è solo questo”, lo ammonì, “un Impero è un insieme di territori diversi. L’Imperatrice ha usato i nostri Soldati del Sole per impadronirsi con la forza delle terre del sud e dell’est, e sta facendo lo stesso con le terre del mare”.
“È per questo che odiamo i rimgae?”
Il Maestro si accigliò, e Thakart capì di aver usato la parola sbagliata.
“Non odiamo nessuno, Sùryn. È l’ignoranza che ci spinge a diffidare del prossimo, ricordalo sempre.”

Il bambino serrò le labbra e abbassò lo sguardo sull’erba fresca. Pensò a quanto gli aveva detto suo padre sugli uomini-pesce, a ciò che si diceva per le strade e al Campo Addestramenti dei soldati. Lì avrebbero deriso il Maestro per i suoi valori. Eppure, a lui piaceva. Cosa c’era di sbagliato? Perché suo padre non approvava?
“Hai di nuovo gli occhi del colore della notte”, notò il Maestro, “cosa ti turba?”.
“Maestro, mio padre è un uomo cattivo?”
Il vecchio si sistemò meglio sul muretto e sollevò una mano a sfiorare le foglie lucenti del salice, poi passò le dita sulla barba.
Tuo padre è un uomo buono a cui sono successe cose cattive, Sùryn”, rispose.
Thakart non capì fino in fondo, quindi bisbigliò ancora.
“Quindi è diventato cattivo?”
Il Maestro scosse il capo.
“No. Ma è diverso, da quando quella donna è venuta qui due anni fa.”
L’Imperatrice, immaginò Thakart. In effetti, da quando l’Imperatrice rhavan era arrivata in delegazione a Maccah, suo padre non lo considerava più come prima. Aveva smesso di parlargli se non per dargli qualche ordine, e aveva cominciato a farlo allenare seriamente con la spada e nel combattimento a cavallo. E tra i suoi genitori si era formato una specie di muro. Era solo un bambino, ma vedeva tutto quanto, anche se non capiva.

“È per questo che tu e la mamma non volete che sappia dei nostri incontri?”, questa volta la sua voce era più tesa di quella che dovrebbe avere un bambino. 
Il Maestro annuì. Rimasero in silenzio per un po’, poi Thakart rabbrividì nonostante la coperta.
“Vieni, Sùryn, comincia a fare troppo freddo per un vecchio e un bambino.”
Seguì il Maestro sotto ai portici e dentro ad uno dei corridoi.
“Il mondo che erediterai, Thakart, è complesso”, lo udì dire.
Il cuore inciampò: il Maestro non usava mai il suo nome. Doveva intendere qualcosa di importante, qualcosa di urgente. Ma non disse nulla.
“Io farò del mio meglio”, rispose allora l’Erede, una risposta che dava spesso anche a suo padre.
Il Maestro gli mise una mano sulla spalla, sorrise. Tutto tornò a posto.
“Sei un bravo bambino, Sùryn.
“Il tuo studente migliore?”, ribatté Thakart.
“Il mio studente migliore.”

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